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NON E' UN PAESE PER VECCHI
(NO COUNTRY FOR OLD MEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 marzo 2008
 
di Joel e Ethan Coen, con Tommy Lee Jones, Xavier Bardem, Josh Brolin (Stati Uniti, 2007)
 
Stiamo uscendo da una stagione stellare per il cinema americano. LA PROMESSA DELL'ASSASSINO di David Cronenberg, SWEENEY TODD di Tim Burton, PARANOID PARK di Gus Van Sant, LETTERE DA IWO JIMA di Clint Eastwood, IO NON SONO QUI, di Todd Haynes, L'ASSASSINIO DI JESSE JAMES di Andrew Domink, NELLA VALLE DI ELAH di Paul Haggis, WE OWN THE NIGHT di James Gray, IL PETROLIERE di Paul Thomas Anderson e via dicendo, tutto un seguito impressionante di grandi film. Che questi s'impongano ai maggiori festival o trionfino come di recente agli Oscar ha un'importanza anche relativa; interessa piuttosto notare come, pur seguendo un tono dissimile, condizionato dalla paletta usata dai loro autori, essi abbiano tutti un comune denominatore. Quello di chinarsi sul malessere, non solo dell'America, ma di un'epoca, una generazione prigioniera di una “libertà” che finisce per condurla a diverse sorte di violenza. Peggio, alla loro banalizzazione. Per denunciarla, questi autori hanno spesso bisogno di usarla, la violenza. Ma perché la denuncia funzioni essi devono comunque scegliere un cammino stilistico la cui qualità, originalità, identità diventi l'elemento portante della loro riuscita. Anche se reduce da due opere minori (gli amabili PRIMA TI SPOSO POI TI ROVINO e LADYKILLERS), quello di Joel e Ethan Coen è entrato in quel novero privilegiato come pochissimi altri dell'ultimo ventennio.

Questo NON E' UN PAESE PER VECCHI, il loro primo tratto da un'opera letteraria, sorprende e significa una volta ancora, imponendosi per la sua originalità e la forza della propria riflessione fra i capolavori dei due fratelli. Bastano i primi dieci minuti del film, l'inserimento della vicenda nel panorama immenso e carico di memoria del Texas desertico, nell'inquietudine degli incerti chiaroscuri temporaleschi della fotografia meravigliosa di Roger Deakins, ma soprattutto dell'uso di questo spazio eterno e sublimato a determinare la forza, e la novità del film. Delle linee di paesaggio ferocemente tranciate, tagliate di netto, cosi stilizzate da farsi contenitore d'energia perentorio per la storia alla quale assisteremo: quella, altrettanto semplice, lineare apparentemente prevedibile di un film d'azione. Con quel poveraccio di cowboy ormai fuori dal tempo che scopre casualmente il favoloso malloppo, il killer psicopatico che si lancia al suo inseguimento, lo sceriffo filosofeggiante che, impotente ad intervenire, finirà per farci meditare su una rincorsa dall'eco sempre meno contestuale. Strutture banali, ma che le scelte espressive dei Coen stravolgono, rendendole spaventosamente reali e miracolosamente surrealiste, concrete e metafisiche. Così come quelle degli attori, follemente paradossali, mai esclusivamente burleschi: Xavier Bardem, terrificante quanto caricaturale personificazione di un Male assoluto, Josh Brolin, contadinotto di buona volontà travolto dall'ingranaggio, Tommy Lee Jones, testimonio melanconico e superato dall'azione, dai tempi, per non parlare dei valori. Come intrappolati nei contenitori stagni dei loro rinvii morali, i tre non s'incontreranno mai. Certo, si misureranno e affronteranno; ma sempre separati, nello spazio e nel tempo della progressione drammatica e della scelta registica alla quale i Coen (e il grande romanzo di Cormac McCarthy) li hanno destinati.      

Ne nasce un film sardonico e cupo, il più pessimista dei due fratelli; e uno dei loro più profondi e compiuti. La realtà, violenta, sanguinaria come non lo era mai stata nel loro cinema, se non forse in MILLER'S CROSSING. Il buio totale, irrimediabile da un lato; dall'altro, la consolazione del rifugio nel surrealismo, della fuga nell'assurdo, nel poetico. O, considerato che con quei due non si arrischia di certo il patetico, nella compassione; come in quel finale ancora sorprendentemente a contro impiego. Il tutto espresso, come quando non ci si limita al pamphlet, senza il sospetto della predica: sull'energia di un'immersione nelle origini dei Miti, là dove il Rio Grande divide dal Messico, dove sussiste l'impronta di una memoria poetica indelebile. In inesorabile mutazione; con gli spacciatori di droga che hanno preso il posto dei ladri di bestiame. Con la corsa al denaro, che ha sostituito quella alle Nuove Frontiere.

Western dell'anima nei toni che talvolta ricordano quelli di un altro capolavoro, A HISTORY OF VIOLENCE di Cronenberg, la folle, tragicomica rincorsa del killer diabolicamente immotivato al buon opportunista, gli sforzi sconsolati dello sceriffo-filosofo per opporsi alla deriva fatale trasformano il thriller farsesco in una favola profetica. Portentosamente ironica e disperata, a perfetta immagine dell'irreversibile noncuranza con la quale sta affondando il mondo.


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